GIUSEPPE
Chino su una pila di quinterni da incollare entro sera, il signor Giuseppe venne distratto da un riverbero di luce che sfrecciava a destra e a sinistra della pagina che teneva in mano, ma anche in su e certamente in giù.
Dalla velocità del riverbero era solito indovinare quale dei due gemelli stesse richiamando la sua attenzione.
Sollevò, dunque, gli occhi oltre le lenti che teneva sulla punta del naso, oltre il calendario da tavolo posizionato ancora su Aprile 1957, era maggio da quattro giorni e non aveva avuto il tempo di strappare la pagina; lo sguardo andò oltre il bancone che lo separava dall’ingresso della legatoria, oltre il bordo della piccola fontana che troneggiava sulla piazzetta antistante e vide Salvatore (aveva indovinato), lo specchietto ancora nella mano destra e la sinistra sollevata e aperta, lesta a salutare il padre e ad allontanarsi prima che lui gli intimasse di dargli una mano in bottega.
“Vado al tribunale!”, urlò e già si allontanava correndo.
Il signor Giuseppe si alzò, fece il giro del bancone scansando a stento scatoloni, rotoli di carta da imballaggio e pile di libri e corse fuori.
“Salvatore! Salvatore!” gridò, ma niente da fare: imbrigliare la vitalità di quel tredicenne era ogni giorno più difficile. Sentì chiudere il portoncino della casa accanto e, voltatosi in quella direzione, si rese conto che quel messaggio lanciato poco prima, quel “Vado al tribunale!” era rivolto a ben altre orecchie che non alle sue. Con gli occhi bassi, un vestito blu a fiorellini bianchi liso ma ben stirato, usciva dal portoncino accanto alla legatoria Sara, una ragazzina di dodici anni che con la famiglia abitava la casa accanto.
“Buongiorno, signor Barone.” disse quella, timidamente e con un filo di voce, passandogli accanto e avviandosi anche lei in direzione del tribunale.
Giuseppe ricambiò il saluto e sorrise. Intanto su una Moto Guzzi rosso fiammante arrivava suo cognato Guido.
“Peppino, che facciamo? Li montiamo ‘sti scaffali?” chiese Guido smontando di sella. “Che poi domani la mia ragazza mi porta a Milano!” e accompagnò le sue parole con il gesto di una pacca sul sellino della moto.
“E montiamoli ‘sti scaffali…” disse Giuseppe rassegnato.
Entrò, si sfilò le lenti e le poggiò sul bancone. Non sopportava di dover rimandare le consegne.
SARA
Sara era impaziente come poche volte: scostò il pesante tendone che separava i due ambienti in cui la stanza era suddivisa e si avviò in quella che era la zona notte, dove lei e la madre dormivano dopo che il padre e i fratelli, raccolto il necessario, erano andati al negozio di scarpe di Corso Olivuzza. Non è che ci fosse bisogno di fare la guardia al negozio, intendiamoci, era una strategia di sopravvivenza dettata dalla necessità: in sei era difficile posizionarsi per dormire in quel fazzoletto di casa.
La madre di Sara il sabato andava al negozio ad aiutare il marito e lei aveva trascorso la mattina a rassettare casa, fare il bucato, preparare il pranzo ma con umore più leggero del solito: il pensiero del suo appuntamento pomeridiano le faceva sbrigare le solite faccende con il sorriso e aveva pure trovato il tempo di fare un bagno.
Appoggiò l’orecchio alla parete che separava la sua casa dalla legatoria accanto: i capelli castano chiaro risaltavano sullo sfondo color ghiaccio della carta da parati e richiamavano il colore dei fiorellini che la ravvivavano, mentre le rade pennellature di giallo si abbinavano al nastro che le raccoglieva i capelli in una coda di cavallo sbarazzina e alla moda.
Quella coda portata alta l’aveva vista a Eleonora Rossi Drago su una copertina di NOI DONNE e le era sembrato che avrebbe potuto aggiungere un po’ di classe anche su di sé se avesse provato a imitarla. Non desiderava forse anche lei stare su una rivista di moda quando sarebbe stata grande?
Sara tenne l’orecchio appoggiato alla parete ancora qualche istante: arrivavano soltanto i rumori delle tavole per pressare l’incollatura dei libri, non sentiva la voce di Salvatore, segno che non era ancora arrivato in bottega.
Sara si stese sul suo letto, quindi, e chiuse gli occhi qualche istante: si immaginò adulta mentre passava dalla legatoria a trovare Salvatore chiedendogli cosa preferisse per cena e la legatoria era più grande perché la sua casetta era stata data come dote per il matrimonio e la bottega era stata allargata; lei teneva un bambino per mano e un altro stava per arrivare, il vestito giallo si accorciava davanti per far posto al pancione.
E portava una coda di cavallo.
Sì, in fondo era più semplice sognare di portare una coda di cavallo e avere messo su famiglia con Salvatore piuttosto che esibirla su una rivista di moda.
Sara era semplice, si accontentava di gioie piccole anche nei sogni.
“Vado al tribunale!” sentì urlare dalla strada a un certo punto.
Si sollevò seduta sul letto di colpo, come se avesse sentito uno sparo, corse allo specchio, si sistemò i capelli, aspettò che il suo cuore tornasse a battere regolarmente e si avviò alla porta.
Al tribunale, al tribunale.
Messaggio ricevuto.
SALVATORE E GAETANO
È bel-lo dop-po il mo-ri-re… Doppo? Salvatore, ma non sai scrivere neanche in italiano?”. Gaetano si vide strappare dalle mani il foglio che stava leggendo da Salvatore. Con velocità felina si era precipitato sul gemello per sottrargli la lettera che aveva scritto per Sara.
“Non t’immischiare!” esclamò indispettito piegando il foglio e conservandolo nella tasca della camicia.
Poi gli scappò da ridere, non ce la faceva a tenere il muso a suo fratello.
Gaetano aveva fatto finta di tornare alle indagini del suo commissario Maigret e ostentava un risentimento inesistente. Anche lui dopo poco scoppiò a ridere e tornò a essere curioso.
“Allora, che c’hai scritto?” chiese abbandonando il libro aperto a metà sul letto e raggiungendo Salvatore seduto a terra a pochi passi.
“Ma niente… che mi piace… che ci dovevo scrivere?” Salvatore era arrossito, riesumò la lettera dalla tasca e la porse a suo fratello.
“È bello doppo il morire vivere anchora…” leggeva Gaetano “Ma così si iniziano le lettere d’amore?”
“Che c’entra? Ho letto questa frase su un libro in bottega l’altro giorno, mi è piaciuta e l’ho copiata.”
“Sì, l’ho capito, ma che vuole significare?”
Salvatore fece spallucce. “Che… che lei mi piace… e cheeeee… Non lo so, Gaetano, mi pareva bella e ce l’ho messa pure nella lettera… mi pareva profonda…”
“Perché? Parli profondo nella lettera?” Gaetano stuzzicava ammiccante il fratello, gli dava una gomitata scherzosa e quello si lasciava canzonare.
“Profondo, certo.” rispose Salvatore. “Se dico che mi piace… Non sono cose serie queste?”
Non si capiva se la domanda fosse retorica o se lui avesse davvero bisogno di una conferma.
“E dove vi incontrate?” incalzò curioso Gaetano.
“Al tribunale. Alle cinque finiscono al cantiere e noi ci possiamo andare e non ci disturba nessuno.”
“Salvatore, lo sai che a fine anno il tribunale lo finiscono? Non vi affezionate a questo posto che a momenti non ci potete andare più. Ma poi… che appuntamenti sono gli appuntamenti al TRI-BU-NA-LE?” e assunse un tono solenne sollevando braccia e mani con la gestualità teatrale di un illusionista che recita il suo A-BRA-CA-DA-BRA.
“Che c’entra?” domandò Salvatore. “È perché per ora là non ci va nessuno e possiamo parlare in pace.”
“E che ci devi dire, Salvato’?” Gaetano era ancora malizioso e canzonatorio. “Che fai? Ti metti a giurare di dire la verità è nient’altro che la verità?” e scoppiò a ridere rovesciando la testa all’indietro e battendo le mani sulle ginocchia, divertito.
Salvatore si alzò in piedi. “Amuni’, me ne devo andare, Gaeta’. La prossima volta che mi chiedi di andare ad aiutare papà al posto tuo te lo dico io dove giuro di non farlo più!”.
E uscì dalla stanza ridendo mentre Gaetano gli tirava dietro una scarpa prontamente sfilata per il lancio di fine atto.
Salvatore si diresse verso la legatoria, la lettera custodita nella tasca sinistra della camicia, lo specchietto in tasca per attirare l’attenzione del padre da fuori ed evitare di rimanere incastrato in qualche “Salvatore, prima di uscire porta qua gli atti del notaio Falco” o “Aspetta, aspetta! Prima di andartene avvicinami queste gazzette” o ancora “Salvatore, c’è da oleare il pistone della pressa”.
Era il 1957, aveva 13 anni, la vita dentro la legatoria poteva ancora aspettare.
~a. ~
CONTRIBUTI DI QUESTO NUMERO
Soggetto
Rilegatoria Fratelli Barone Palermo
Fotografia
Umberto Santoro
Testi
Antonella Fontana
Illustrazione
Francesco Cutway